sabato 25 dicembre 2010

Cena felice per single non-cucinanti

Questo post è stato scritto una settimana fa e per pura pigrizia è rimasto lì a giacere. Lo pubblico oggi perché non c'entra assolutamente niente col Natale che imperversa, quindi mi sembra il momento più adatto.

 

Ci sono momenti di felicità gratuita e immotivata. Oggi voglio festeggiare, dopo tanto buio, una serie inaspettata di giorni felici. Felici così, senza motivo: semplicemente sto proprio bene, e stare bene gratis è bellissimo, soprattutto se lo standard è da tanto tempo il contrario.

Da sempre sostengo che per prepararsi una cena come si deve non occorre saper cucinare. Affermazione temeraria, e che potrei contraddire già da subito riflettendo sul fatto che per fare bene cose semplici bisogna, in realtà, avere almeno una certa pratica e, soprattutto nel caso di pietanze semplicissime, essere tignosi sulla qualità degli ingredienti. Ma non scassiamoci le balle da soli! Non oggi che sono di ottimo umore, avendo passato il pomeriggio in perfetta serenità a fare aranzadas e a baloccarmi con i miei giocattoli nuovi. E quindi, dopo tanto lavorìo minuzioso di coltellini e con le narici piene del profumo di arance e miele, di mettermi a cucinare la cena proprio non ho voglia. Per fortuna in congelatore alberga un bel filettone sui 250 grammi, e nel frigo c'è tutto il resto dell'occorrente  per aumentare con poco sforzo il tasso di contentezza.
Ingredienti:
  • una fetta di filetto alta almeno due dita
  • qualche acciuga salata (o anche sott'olio, ma di suprema qualità). VIETATA la pasta d'acciughe.
  • un limone, meglio se non trattato
  • due cucchiai di burro a temperatura ambiente
Affettate il limone e togliere da due fette eventuali semi.

Dissalate un paio di acciughe e schiacciarle con la lama di un coltello (o con quello che vi pare) fino a ridurle in pasta. Amalgamatele al burro e lavorate ancora finché avrete una bella crema liscia.
Spalmatela in uno strato spesso (mezzo cm) sulle fette di limone, e mettetele in freezer per qualche minuto (o in frigo per un'oretta, se siete stati previdenti).

Accendete il forno e mettete a scaldare il piatto. Fondamentale: non fatelo e capirete il perché. È così che si impara a non-cucinare e a mangiare bene - o almeno è così che ho imparato io.

Scottate il filetto sulla piastra di ghisa al grado di cottura desiderato. Avvolgetelo nella carta di alluminio, chiudete bene e contate fino a 45. Mettete la carne sul piatto caldissimo, pepate, salate. Inforchettate la fetta di limone e strofinatela sul filetto: il burro all'acciuga, con il suo retrogusto di limone, si scioglierà dolcemente, avvolgendo la ciccia con un vestitino glassato e delizioso, che (se il piatto è ancora caldo, appunto) si mescolerà al sugo che la carne andrà emettendo via via che mangiate, facendosi vieppiù squisito.
(Per questa ricetta, che con piccole puntualizzazioni ormai è diventato il mio modo preferito di mangiare il filetto, ringrazio Mammatilli, che è una super-cucinante e ne sa una più del demonio).

lunedì 20 dicembre 2010

Evoluzione Planetaria

Dopo tre anni di panificazione manuale; due anni di accanito, tignoso, paziente accumulo di puntifragola; un anno di desiderio sfrenato e molte segrete preghierine notturne, me lo sono proprio meritato.
Non ci sarei arrivata, però, se non fosse intervenuta la mia best friend, che tanto non legge mai questo blog ma la ringrazio lo stesso con tutto il mio cuore di massaia.
Mi sento realizzata.

martedì 30 novembre 2010

Captazio benevolentiae


In uno dei rari momenti di benevolenza del destino, mi è capitato di recente che mi regalassero un tartufo.
Così, senza ragione, oplà, piovuto dal cielo. Tutto per me. Bello grosso, e profumato di paradiso. 
Per la consueta signorilità che lo contraddistingue, il mio benefattore me lo ha presentato come uno scambio: una piccola fornitura di cappellacci di zucca contro un tartufo; inutile dire che l'affare era tutto a mio vantaggio, e che mi sono ben guardata dal farlo notare.
Così, con il mio vassoio di pasta ripiena in bilico nel bauletto del motorino, mi sono precipitata a prendere in consegna il prezioso prigioniero. 
Amorosamente avvolto in un tovagliolino di carta, non sapendo dove altro metterlo ho infilato il tubero aulente nel taschino superiore del giubbotto e ho proseguito nei miei giri di faccende, che prevedevano anche la spesa al super in un orario particolarmente affollato. E mentre vagavo tra gli scaffali, ho cominciato a notare una inconsueta gentilezza nella ressa di persone che mi circondava. Sorrisi. Cordialità. Giovanotti che aiutavano vecchiette invece di ammazzarle a gomitate, come di consueto. Signori austeri che carezzavano bambini. Carampane normalmente digrignanti che stavano buone in fila. Tutto un fiorire di "passi prima lei, ma la prego, prima lei". Sarà che il mondo ti sembra più bello quando ti senti felice? - ho quasi pensato. E già mi avviavo su questa per me inedita via di positiva riflessione e saggezza, quando ho capito che la faccenda era più prosaica.
Ero io che spargevo benessere, benedicendo l'ambiente intorno a me con l'aroma subliminale della "eau de truffe"che impreziosiva il mio taschino.
Son bei momenti.

Come è finito il tartufo?
In svariati modi, ma il più glorioso è stato su certe mezzelune ripiene di fonduta, di cui vi passo la ricetta (molto normale, molto semplice), nel caso probabilissimo che aveste anche voi un tartufo nel taschino in questo momento e non sapeste cosa farvene:

per circa 40 mezzelune
  • 150 gr di fontina
  • 140 gr latte intero
  • 1 tuorlo (eventualmente due, dipende dalla grandezza dell'uovo). 
Conservate un albume a parte per chiudere la pasta, se come me siete ansiosi e avete visioni catastrofiche di mezzelune vuote che galleggiano cuocendo in una brodaglia di acqua e fonduta.
per la sfoglia:
  • 200 gr farina 00 (se vi piace "tonica", tagliare con circa un terzo di farina rimacinata di grano duro)
  • 2 uova
un coppapasta del diametro di cm 8
una rotella tagliapasta zigrinata
asse e mattarello, o macchinetta per la pasta.
  • burro a temperatura ambiente, abbondante
  • Grana Padano (almeno 20 mesi, meglio di più) grattugiato o Parmigiano Reggiano
Mettere a mollo la fontina tagliata a dadini nel latte, in una bastardella o in un pentolino che possa andare a bagnomaria.

Impastare la farina con le uova, lavorare bene, radunare a palla e mettere a riposare almeno mezz'ora a temperatura ambiente.

Far fondere dolcemente il formaggio nel latte a bagnomaria, mescolando delicatamente. Quando è ben sciolto, aggiungere il tuorlo (se due, aggiungerne uno alla volta) e farsi venire l'ansia perché sembrerà che non ci sia verso di farli incorporare al composto. Ma aver fede, continuare a mescolare energicamente con una frusta finché come per magia il tutto assumerà un aspetto cremoso e uniforme.
Immergere il recipiente in acqua ghiacciata per raffreddare il composto.

Tirare la sfoglia. Se usate (come io ho usato) l'Imperia, arrivate fino allo spessore n° 5. Potete arrivare anche fino al n° 6 se vi piace molto sottile, ma poi ci vorrà un po' di manualità in più per chiudere la pasta senza fare casini.

Con il coppapasta tagliare dei dischi. Mettere la fonduta, ormai rappresa, a mucchietti, pennellate la circonferenza con l'albume e chiudere la pasta a mezzaluna. Rifinire il bordo con la rotella zigrinata, eliminando eccessi di pasta.
(Il mio personale consiglio, a meno che non siate in due a fare il lavoro, è di tirare e riempire una striscia di pasta alla volta, perché se la lasciate lì ad aspettare si asciugherà e sarà più difficile chiuderla bene).

Cuocere in acqua salata pochi minuti. Intanto lavorare nella terrina in cui condirete le mezzelune il burro e il formaggio fino a formare una crema. Scolare, condire e seppellire di tartufo.
E con questo, ora sapete anche voi come farvi voler bene.

domenica 10 ottobre 2010

Microclima per la felicità

Vivo ancora di rendita sulla memoria dei giorni ferraresi, ormai resi mitici dalla bruma del ricordo e avvolti dal fascino del desiderio proibito (sono ancora a dieta: ciò che ho ingurgitato in quei due giorni mi è costato dieci giorni extra di punizione). Scrivere oggi del mio primo, fulminante incontro con le tigelle - oggi che per cena mi toccano petto di pollo e broccoli -  è quindi una cosa di alto valore eroico, che spero apprezziate. Una prova del distacco dalle cose terrene che ci si guadagna con una alimentazione sana nella qualità e nella quantità, quindi del tutto priva di gioia e sensualità. Una ascesi che potrebbe anche favorire in me il germogliare tardivo di una parvenza di vita spirituale e magari persino della santità. Un giorno, chissà. Non oggi. Oggi sono tormentata da visioni di tigelle calde farcite con pancetta coppata all'aglio, lardo, squaquerone.
Sognate con me.
Sognate una cucina in cui da tutto il giorno pentole di ragù, patate, zucca e altre delizie sobbollono sul fuoco, saturando l'ambiente di vapori balsamici. Una atmosfera raccolta, in cui tre cuocastri avviluppati in grembiuloni uguali si affaccendano silenziosamente, in raccolta armonia. Una cucina dove benefici microorganismi albergano a causa delle regolari panificazioni. Fuori dal balcone (dove io credo di aver passato la maggior parte del tempi a fumare, ora che ci penso), un tramonto dolcemente autunnale, cosparso di vaghe nuvolette. Prosecco che scorre a fiumi. Una cucina, quindi, dove non manca nulla. 
Nemmeno la tigelliera.

Tigelle 
  • circa chilo di farina OO
  • circa 4 cucchiai di strutto
  • un cubetto di lievito di birra fresco
  • circa due cucchiaini di sale
  • un cucchiaino di zucchero (facoltativo)
  • acqua tiepidina q.b.
Accompagnamento: salumi preferiti e formaggi freschi
Sciogliere il lievito sul fondo di una ampia ciotola in poca acqua appena tiepida insieme allo zucchero. Aggiungere ancora acqua e poi la farina setacciata.  Cominciare ad impastare, aggiungendo il sale e acqua finché la massa sarà diventata soffice ed elastica. Mettere a lievitare spolverata di farina.
In teoria, dopo un paio d'ore o tre sarà raddoppiata. A quel punto spianarla con un matterello allo spessore di circa 1/2 cm, ricavarne dei dischetti con un coppapasta (della stessa misura della tigelliera, of course), rimettere a lievitare ancora un po' e cuocerli nella tigelliera precedentemente arroventata. Si servono calde farcite con i salumi. Questa la prassi abituale.

Ma noi, dopo tre ore, abbiamo improvvisamente deciso che invece si andava fuori a cena. 
E qua scatta il miglioramento. Vorrai mica buttar via il lavoro. Abbiamo ripreso la pasta, fatto un folding, e l'abbiamo sbattuta in frigo. Al nostro ritorno l'abbiamo controllata, e nonostante il freddo era talmente viva che strabordava dalla ciotola. L'abbiamo ripresa ancora, e rimessa a nanna sperando si calmasse.
La mattina dopo era ancora vivacissima, anzi proprio esuberante. Terzo round, e rimessa in frigo. Alla quarta ripresa, nel tardo pomeriggio, la pasta aveva raggiunto un livello di elasticità e tonicità favolosi. 
Io il pane lo faccio sempre, e una pasta così bella raramente mi è cresciuta tra le mani.  Mi ci sarei potuta fare un vestitino stretch. Ha prodotto delle tigelle perfette, morbide e profumate, che si aprivano in due da sole.
Ci ho pensato: secondo me, oltre al lungo tempo di lievitazione e ai folding (che già fanno la differenza), la presenza in cucina di microorganismi favorevoli, unita alla presenza pressoché continua di vapori caldi di pentole in ebollizione hanno creato un ambiente superfavorevole alla maturazione dell'impasto. 
E anche alla maturazione della felicità.



venerdì 1 ottobre 2010

Caplàzz alla riscossa

Più vado avanti, e più mi dirigo verso la cucina tradizionale. Italiana, etnica, va bene tutto, mi interessa tutto. Mi importa però che una ricetta sia quella che dev'essere. Ci ha messo decenni, a volte secoli per diventare se stessa. C'è una ragione perché si fa così e non altrimenti.
Sopraffatti dalla ormai pressoché infinita possibilità di scelte, mi pare che in questi anni si sia molto esagerato, e spesso perso la bussola. Troviamo buoni, o accettabili, miscugli di sapori che spesso non lo sono affatto. Perché siamo viziati, perché bisogna fare sempre qualcosa di nuovo, se no non ci si sente abbastanza creativi.
Perché mai rivisitare e contaminare ricette che sono perfette così come sono? Cosa mi dà di più lo zenzero nel risotto alla milanese? Che bisogno c'è del tè matcha sparso a cucchiaiate in ogni dove? Be', sì, è vero: qualche volta, ibridando, si hanno piacevoli sorprese. Si mette in memoria così un accostamento imprevisto, che migliora quello a cui si è abituati ed entra in repertorio con diritto. È il progresso, babe. Ma è raro. 

In questo periodo ho la nausea da creatività obbligatoria. Esattamente così come ho la nausea da foto di cibo pretenziose, alla fine tutte uguali, con il fiocchetto, la polpetta impilata, il bicchierino con dentro dalla polenta al risotto, cibo incastrato a forza in contenitori improbabili: tazzine, posacenere, vasi da fiori, pitali, tutto purché non sia - orrore! - un piatto,  e sempre rigorosamente guarnito e infiocchettato. Cosa che non fa la qualità. Ma sembra. Infatti piacciono.
A me invece non piacciono.
Non è che sia un discorso nuovo, per carità.
Comunque, la mia personale vendetta passa oggi attraverso la più tradizionale delle tradizioni. 

Caplàzz


Il Caplàzz è la tradizione ferrarese. Il Caplàzz è perfetto così com'è.
Per fare i Cappellacci ci vuole la zucca violina*. La zucca violina può essere buona, o se si è sfortunati può essere sciocca, e allora non c'è verso: il cappellaccio non perdona. Poi bisogna saper tirare la sfoglia a mano, che in fondo non è così impossibile, ma ci vuole l'asse grande e il matterello lungo. E ci vuole la mano santa di chi ha visto la mamma, la nonna, la zia farli. Sabato scorso, nel Ferrarese, ho avuto la fortuna di stare in cucina con qualcuno che chi li sapeva fare proprio bene. Ho avuto anche altre fortune (è stato un fine settimana decisamente fortunato), ma di queste riferirò in seguito.


* in foto, la zucca violina opportunamente evidenziata 

Si cuoce al forno la zucca violina a fette, o a tocchi, con la buccia. Deve rimanere il più asciutta possibile.
Si elimina la buccia si spiaccica la polpa, e si aggiungono parmigiano reggiano e noce moscata. Niente sale.
Si tira una sfoglia (classica: circa un etto di farina per un uovo). La si tira non troppo sottile. Per le dosi: con sei uova di sfoglia, io ricavo 140 cappellacci. La zucca non l'ho pesata, quindi non saprei dire.
La si taglia a quadrati e poi ci si sbriga, perché se si fa passare troppo tempo la sfoglia "s'infrustlis", cioè si asciuga e non si riesce più a chiuderla bene. Ci si poggia sopra mucchietti di ripieno, poi si chiude a triangoli e la si piega così:


Vi ho fatto addirittura un pregevole filmato:


Si condisce con un ragù. Normale. Soffritto di sedano, carota, cipolla; parti circa uguali di macinato di maiale e di manzo, e un po' meno di salsiccia. Sfumatina di vino bianco. Poco pomodoro. Alloro. (indispensabile). Il ragù si tiene un po' più salato del normale, perché la zucca del ripieno è dolce, e il contrasto è il suo bello.

Ecco, non è per fare apologia tradizionalista, ma certe cose vanno bene come sono, e basta. Questa è una. Lasciamola così. Spero che nessun massacratore di ricette, televisivo o non, ne venga a conoscenza e ne faccia scempio. Il giorno che vedo il Caplàzz rivisitato, mi incazzo sul serio.

giovedì 16 settembre 2010

Carestia

Io sono a dieta. La gatta che vive con me è a dieta. I nostri rispettivi veterinari hanno deciso che è necessario. Hanno stabilito per noi delle razioni che non si possono nemmeno considerare cibo. A entrambe sono concesse delle verdure extra pasto, in caso di fame ingovernabile. Mi è sembrata persino offensiva l'ipotesi di placare la fame di un gatto con della verdura. Della mia non parliamo neanche.

Questa è la scena che si presenta (cucina, interno, notte). La donna mastica mestamente l'unica forma di spuntino notturno possibile: una scodella di cetrioli, peperoni verdi, un'idea di cipolla, pochi pomodori. La gatta la guarda con occhi biafrani. La donna le allunga un pezzettino di cipolla, solo per farle capire che nel  piatto non c'è niente di appetitoso. La gatta lo mangia. Non solo: mastica a lungo per farlo durare di più.
Una scena straziante. 
Stasera quindi, dopo un lungo sguardo in cui sono passati silenziosamente molti discorsi, ci siamo divise una zucchina bollita. Le ho ceduto la porzione più abbondante.

lunedì 6 settembre 2010

Consolazioni

Il mercato di settembre mi piace moltissimo. Son belli i colori, forse anche perché è bellissima la luce, e saltano fuori cose povere da orto che non si vedono spesso in commercio a Milano. Sabato ci sono andata per i primi chili di perini da salsa; ma questi piccoli peperoni cornuti, perfetti, croccanti e a un prezzo ridicolo dicevano proprio "mangiami mangiami", e son venuti a casa con me. Ricordavo di averli assaggiati in Grecia, in una di quelle deliziose serate dopo il mare, quando la vita offre piaceri  perfetti, semplici e senza controindicazioni. Per verifica ho cercato la ricetta sul web e ho visto che rimbalzava dappertutto questa che, per una volta, non era un bidone. Così, nelle pause tra un pentolone di salsa e l'altro, ho affettuosamente imbottito piccoli peperoni per dedicarmi una cena ancora estiva.
Cucinare è il mio modo per consolarmi, c'è poco da fare: compensare le manchevolezze del presente, tenermi vicino le felicità del passato. Procurarmi un piacere immediatamente accessibile quando tutti gli altri non lo sono.


Πιπεριές γεμιστές με φέτα 
Piperies gemistes me feta
Peperoni ripieni di Feta

  • una decina di peperoni corno verdi, piccoli 
  • 200 gr di Feta
  • prezzemolo
  • origano
  • 1/2 peperoncino piccante, meglio fresco
  • olio extravergine
  • due fette di pane raffermo 
Tagliare la calottina ai peperoni, e con mano di fata levare i semi senza fare danni.
Tritare finemente il prezzemolo con il peperoncino.
Sbriciolare il formaggio in una ciotola, aggiungere due cucchiai d'olio, il trito, un cucchiaio di origano, e lavorarlo un po'. Non salare, il Feta è abbastanza salato di per sé.
Riempire i peperoni e chiudere l'imboccatura con un pezzettino di pane raffermo (finezza!), in modo che in cottura il formaggio non fuoriesca. Irrorare con un filo d'olio e infornare una mezz'ora a 200°, girandoli una volta in modo che la pelle arrostisca su tutti i lati.

Si mangiano a temperatura ambiente (e ovviamente il giorno dopo, da riposati, sono ancora più buoni).

domenica 29 agosto 2010

Ristrutturazioni

C'è qualcosa che non va nelle statistiche. All'inizio di questa estate interminabile, ho letto più volte sui giornali che il 58% degli italiani quest'anno non sarebbe andato in vacanza per mancanza di soldi.
Poi ho guardato fuori dalla mia finestra, nel mezzo di questa interminabile estate, e ho contato le finestre accese verso sera: nel mio cortile eravamo in due, in quello accanto una, tutto intorno il buio assoluto. Ne deduco che, per compensare questa anomalia, mentre tutta Milano era in vacanza l'intera popolazione di Napoli è rimasta a casa.
Io ho tenuto duro, e ho cercato di lavorare per operare dei cambiamenti - possibilmente in meglio - della mia situazione abitativa ed esistenziale. 
Cambiare non è facile, sopratutto cercare di cambiare il punto di vista a cui si è molto abituati, ma questo è ciò che mi sto esercitando a fare. Ovviamente la ristrutturazione di quelli che ho imparato a chiamare "pensieri disfunzionali" non è affatto una passeggiata, e l'esito per ora è assai labile. Più proficua quella della mia cucina, che dopo moltissimi rimuginamenti, disegnini, conticini, buchi nel muro e avvitamenti, alla fine ha assunto un assetto diverso e si spera più efficiente.
La pattumiera, per dire, che per vent'anni è stata in bella vista con mio sommo fastidio, ha trovato posto sotto il lavello, come in tutte le case civili e perbene. Ci sono scaffali nuovi, e il tavolo ha cambiato posizione. Il che significa che ora butto per terra palate di bucce di patata - i miei automatismi continuano a portarmi verso il punto dov'è sempre stata la pattumiera - e che ceno come un'anima in pena ogni volta su un lato diverso del tavolo, non avendo ancora trovato la "mia" nuova posizione. 
Ma mi assicurano che con l'esercizio si creeranno nuove abitudini più funzionali, e che in queste finirò per sentirmi comoda, prima o poi. Magari guarisco anche, chissà. 
Ma tornando alle statistiche, per fortuna l'altra finestra accesa del mio cortile mi ha portato su le pesche ripiene: un suo grande classico di metà agosto, che mi ha confortata moltissimo sulla continuità eccetera.

  • 4 pesche bianche, grosse e sode
  • 3 amaretti artigianali morbidi
  • 100 gr circa di cioccolato fondente amaro
  • 1 tuorlo d'uovo
  • un paio di bicchieri di vino rosso
  • 1 pezzetto di cannella
Tagliare a metà le pesche, togliere il nocciolo e scavare un po' di polpa.
Metterla in una terrina con gli amaretti sbriciolati, il tuorlo d'uovo, il cioccolato precedentemente sciolto. Niente zucchero, casomai vi venisse il dubbio.
Riempire le mezze pesche con il composto, metterle in una pirofila e aggiungere sul fondo il vino, un cucchiaio di zucchero e il pezzetto di cannella.
Infornare  a 160° e cuocere quanto basta perché le pesche diventino morbide ma sode. Negli ultimi 5 minuti alzare la temperatura e brunire il ripieno. Servire a temperatura ambiente con la loro deliziosa puccetta.

venerdì 13 agosto 2010

Contrasti

Torno dopo tanti mesi, e torno perché ho preso l'impegno di farlo. Fa parte della cura, quindi non si discute: si fa. Servirà, non servirà, non importa.
Torno con un piatto di casa che adoro, e che è perfettamente rispondente al clima della mia metropoli silenziosa, a metà di questo interminabile agosto: temporali gelidi e squarci torridi nelle pause.
È una ricetta della mamma di Rubina. Non so chi sia Rubina, non conosco la sua mamma, la ricetta l'ho adottata anni fa in un sito che allora mi piaceva, ed è rimasta per sempre nel mio menu domestico. Ho lasciato il titolo originale: chissà perché "spagnolo"?
L'accostamento di ingredienti è inconsueto, e a leggerlo sembra un'accozzaglia mal combinata. Si sa che ognuno ha le sue fisse, ma io, per dire, non avrei mai messo una salsa di pomodoro crudo sopra un riso condito con il burro. E invece no! Alla prima forchettata, mi sono tornate in mente le deliziose pastasciutte della mia infanzia (lombarda), sulle quali un bel pezzo di burro crudo si scioglieva sopra la salsa di pomodoro, arrotondando meravigliosamente il sapore. 
Un altro accostamento che, a leggerlo, proprio non mi convinceva è il limone sopra al pomodoro: e invece ci sta benissimo.

Perché riesca bene, un po' come per altre cose apparentemente semplici, bisogna stare attenti a tanti piccoli dettagli, che trascurati vanificherebbero il risultato. Usare un riso amidaceo non fa lo stesso, non asciugare bene i pomodori è imperdonabile, non scaldare i piatti è fatale. Io ve l'ho detto.


Riso caldo e freddo spagnolo

Ingredienti per 4 porzioni:
  • 300 g. di riso a chicco lungo (Gange, Thai, Basmati)
  • burro
  • 8/10 pomodori ramati sodi e ben maturi
  • olio extravergine
  • succo di limone
  • sale
  • pepe nero 
Spellare i pomodori, privarli dei semi, salarli e metterli a scolare. Quando avranno perduto la loro acqua di vegetazione, passarli al frullatore per ottenere una salsa densa, vellutata e assolutamente priva di acqua. Prepararla con un paio d'ore di anticipo, e conservarla in frigo.
Preparare una emulsione di olio, limone, sale, pepe.
Lessare il riso in abbondante acqua salata, scolarlo molto bene e condirlo con il burro.
Intanto scaldare i piatti.
Comporre rapidamente ogni piatto con uno strato di riso caldissimo appiattendolo bene, e uno strato spesso di salsa di pomodoro molto fredda.
Condire con la citronnette e servire immediatamente.
È importante mangiare questo riso senza mescolarlo, prelevando  con la forchetta ogni boccone dal basso verso l'alto, perché la sua particolarità sta nel contrasto di sapori e di temperature.
Mi scuso per la foto, che è quanto di meno appetitoso. Non so ancora usare la macchinetta nuova, imparerò.

domenica 25 aprile 2010

Tarassaco in crosta di pane

Larissa, expat in terra albionica e in forte crisi di astinenza primaverile da vegetali che non siano broccoli e piselli, mi manda commoventi ricette con le ortiche, che va a scovare nei campi guadagnandosi valorosamente e fortunosamente la pagnotta come una donna delle caverne. Leggendola mi son venute in mente le altre erbe che in questa stagione si trovano nei prati, e che sono stata addestrata a riconoscere da piccola, quando vivevo in campagna. La più comune, e facile da trovare e riconoscere è il tarassaco; per cui, Larissa: guarda bene la figura qua, e scatenati naso a terra. Poi sappimi dire.


Trattasi di un tortino campestre, rigorosamente primaverile: il tarassaco ha una sola, breve stagione di raccolta in aprile, e vale la pena di approfittarne. Si trova anche al mercato, se non avete campi (come me, e la cosa mi rattrista) a disposizione. Il pane carasau è leggero, squisito, versatile e troppo poco usato al di fuori delle ricette tradizionali sarde. È perfetto invece per avvolgere e contenere ripieni di ogni genere.
Ingredienti per 2 porzioni
  • 500 gr (circa) di tarassaco (detto anche pisacan, o soffione, cicoria matta)
  • 2 o 3 fogli di pane carasau
  • 1 caprino (o un po' di caprino e un po' di ricotta di pecora)
  • 1 cucchiaio di parmigiano grattugiato
  • 1 uovo piccolo
Mondare e lessare il tarassaco.
Strizzarlo bene, e tritarlo grossolanamente con il coltello.
Mescolarlo bene all'uovo e ai formaggi, salare e pepare.
Passare sotto l'acqua fredda i fogli di pane e lasciarli riposare qualche minuto, finché diventano morbidi.
Ungere leggermente una pirofila, foderarla con i fogli di pane sovrapponendoli un po' e lasciando che sbordino abbondantemente dal recipiente; riempire con il composto e ripiegare i bordi in modo da coprire bene tutto.
Spruzzare con un po' di olio, e infornare a (circa) 200° per (circa) 20 minuti, poi accendere il grill e far dorare la superficie finché è bella croccante.
Chi è a dieta, sacrifica l'uovo e risparmia (circa) 80 calorie senza grave danno.

venerdì 19 marzo 2010

Pasta con la bottarga

Ci sono momenti di difficoltà. Che a volte, uffa, si trasformano in periodi di difficoltà. Poi in genere passano. Ma a volte, nonostante le speranze e l'impegno per uscirne, possono incancrenirsi in epoche di difficoltà le quali, se ripetute e pericolosamente ravvicinate, possono trascendere in una vita difficile. Non so quantificare ma posso azzardare che una decina/quindicina d'anni continuativamente difficoltosi siano un confine oltre il quale si comincia a definire quest'ultima. E come diceva non so più chi, "non si può essere infelici impunemente". La punizione è ci si ammala.

Detto questo, che spiega in qualche modo la mia assenza, vorrei parlarvi di una delle cose che mi piacciono di più al mondo: la bottarga. La bottarga di muggine, in particolare. Nella categoria "uova di pesce", che mi piace indistintamente, con l'esclusione delle uova di riccio - il quale però non credo si possa definire un pesce, anche se è una creatura marina -, la bottarga forse mi piace anche di più del caviale. Oddìo, forse. Comunque.


La bottarga merita il rispetto assoluto. Lo so che parlo dell'ovvio, e infatti questa è una ricetta ovvia, ma spesso mi capita di leggere ricette in cui essa compare spadellata sul fuoco come se fosse un insaporitore quasiasi. E mi viene la tristezza.

Perché una pasta con la bottarga sia un tripudio dei sensi, e non una pasta che sa vagamente di pesce dolciastro e/o amarognolo le regole sono due, e davvero semplici: 1) la bottarga dev'essere fresca, e intera. No, no, NO ai tristi barattolini di roba grattugiata. 2) la bottarga non va cotta. La cottura la ammazza, senza rimedio. Siate buoni, fatelo per me, non spadellate la bottarga. Tenetela lontana dal fuoco.
Quindi ognuno poi ha la sua ricetta di pasta con la bottarga, e sono tutte buone se seguono queste due regole. Io la mia la faccio così:
  • Trenette, o spaghetti grossi, o tagliolini all'uovo.
  • Bottarga di muggine sarda, fresca, trasparente, arancione e intera.
  • Olio extravergine saporito, di suprema qualità
  • Pepe nero
  • Prezzemolo
  • Un limone
Metto a bollire l'acqua. Nella zuppiera dove condirò la pasta metto abbondante olio extravergine - quando sono fortunata ho quello nuovo che viene dal  Poggione: fruttato ma di raro equilibrio.
Spello, schiaccio e aggiungo uno spicchio d'aglio. Metto la zuppiera sulla pentola dell'acqua che bolle, in modo che l'olio intiepidisca e si aromatizzi. Ci macino del pepe nero. Aggiungo una grattata di buccia di limone, fatta con la Microplane grossa, in modo che restino dei filettini percepibili al dente. Con la stessa Microplane grattugio la bottarga (e la tengo da parte). Trito il prezzemolo non troppo fine, a volte lo sforbicio solo.
Quando la pasta è pronta, tolgo l'aglio dal condimento, prelevo un mestolino di acqua di cottura ed emulsiono bene, aggiungo la bottarga. Condisco rapidamente la pasta nella zuppiera, mescolando bene, rifinisco con il prezzemolo.
Certe volte metto anche qualche goccia di limone inseme al condimento, e certe altre anche due pomodori secchi, ammorbiditi e tritati grossolanamente. 
La mangio benedicendo questa piccola mummia che riposa in frigo, pronta a resuscitare quando ho bisogno di lei. In tempi felici, era la cena extra a notte fonda, la perfetta cena della felicità, dopo il tango o dopo... be', insomma, a notte fonda. 

(Ovviamente questo post è un'esca, messa lì affinché stimoli subliminalmente in un paio di amici (due a caso) l'impulso inspiegabile ma irresistibile di presentarsi alla mia porta con una piccola fornitura di bottarga fresca.)

venerdì 29 gennaio 2010

Aranzadas memorabili


Ne so poco di cucina sarda, ma quel poco mi piace moltissimo. Le mie papille tendono a trattenere i ricordi di quello che ho assaggiato lì, anche per anni: chiaro segno di una cucina in accordo naturale con i miei gusti.
Quest'anno avevo voglia di fare dei dolcetti per Natale, ma ero veramente stufa della massiccia proliferazione di biscotti che oberava i miei blog quotidiani nonché l'intero www. La mia memoria papillare quindi, che mi soccorre nei momenti di emergenza, mi ha indicato con sicurezza le aranzadas: dei dolcetti angelici e semplicissimi che mi avevano portato da Nuoro una decina d'anni fa e che mi avevano deliziata.
Mentre passavo le mie serate a sfilettare maniacalmente bucce sottilissime di arancia, la prode MarieClaire e il suo promesso coniuge intercedevano presso la di lui mamma sarda, affinché mollasse la ricetta di famiglia: generosamente ella acconsentì, e aranzadas furono.
Grazie mille a tutti loro, quindi. Ora che le so fare, le farò sempre.
Ci vogliono:
  • arance non trattate
  • miele (io ho usato un buon millefiori, sconsiglio il castagno e in generale il miele molto scuro e amaro).
  • mandorle pelate
Si sbucciano le arance procedendo a quarti, e si leva con un coltellino affilato assolutamente tutta la parte bianca da ogni spicchio di buccia. Si ricavano dei filettini sottilissimi e si mettono a seccare sul calorifero (stufa, mensola del camino, forno ventilato a minima temperatura). Sono fortemente avvantaggiate, in questa fase, le famiglie numerose e dotate di pazienza e buona manualità.
Quando se ne hanno abbastanza si mettono in una pentola in acqua fredda, e si portano a bollore. Si cambia l'acqua e si ripete l'operazione per tre volte. Si scolano bene e si mettono su un panno asciutto.
Si sfilettano in senso longitudinale anche le mandorle ottenendo dei bastoncini sottilissimi (lavoro veramente infame), e li si tosta leggermente nel forno.
Si scalda il miele in quantità sufficiente ad affogarci le bucce, e si cuoce a fuoco dolcissimo per venti minuti, o quanto ci vuole perché esse diventino traslucide e assorbano bene il miele.
Quando sono pronte, si aggiungono i filetti di mandorla e si spegne il fuoco.

Ci si prepara sul tavolo una bella schiera di pirottini da pasticceria di formato mignon, e ci si munisce di  una pinza da cucina tipo questa in foto, o in alternativa di bacchette cinesi (non sto scherzando: io li ho fatti con quelle, delirio assoluto).
 
Si prelevano delle piccole quantità di bucce e mandorle, le si scola molto bene dall'eccesso di miele, e si depositano con mano sicura nei pirottini di carta formando dei mucchietti aggraziati, possibilmente senza schizzare gocce di miele in giro, che poi sono rognose da togliere. In questa fase è fondamentale la rapidità: man mano che il miele si raffredda, infatti, sarà più difficile scolarlo via del tutto, e l'eccesso si potrebbe depositare sul fondo dei pirottini  formando una suoletta appiccicosa  che non va assolutamente bene! Quindi, quando ci si accorge che il composto si sta solidificando troppo e non sgocciola più via immediatamente, gli si dà una scaldatina.
 Si lasciano poi a solidificare, e durano anche un mesetto.

Il risultato dovrebbe essere un etereo, arioso bocconcino di arancia candita e mandorle profumato di miele, difficile da dimenticare. Almeno, per me è stato così.

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In coerenza con la mia personale campagna contro lo sfruttamento dei blogger e a sostegno dell'economia di scambio, questo post è stato scritto dietro generoso compenso di un meraviglioso barattolo di miele sardo.

martedì 19 gennaio 2010

Il mistero delle puntarelle

Non so voi, ma io ho una serie di questioni in sospeso riguardo alla preparazione del cibo.
Misteri che affronto da anni, e che nonostante mi ci sia incaponita non sono mai arrivati a soluzione.
Oggi ne ho uno uno in meno, ed era uno dei più frustranti.

Come si fanno le puntarelle non è un mistero per nessuno. È la cosa più stupida del mondo. Si prendono le puntarelle, eventualmente si spelano, si tagliano a bastoncini finissimi, si mettono in acqua fredda e si lasciano lì un tot di ore. Fine del procedimento. Quando si torna si trovano dei bei ricciolini, li si condisce con olio, aceto, aglio, acciuga. Fine della ricetta.
Oppure, se uno è di Roma, va al mercato e se le compra bell'e arricciate. Usanza civilissima, trovo. Quassù invece l'unico sistema è andare al mercato, comprarsi un enorme cespo di catalogna spigata (perché se chiedi puntarelle non hanno idea di cosa parli), farsi strada attraverso il fogliame a colpi di machete, separare i cicci uno per uno, e accingersi al micidiale lavoro di tagliuzzamento con un coltellino affilato. Ma.
Ma io sono dieci anni che faccio questa cosa, con fede rocciosa, e quando torno trovo gli stessi bastoncini dritti stecchiti che ho lasciato a mollo. E mangiare le puntarelle dritte inficia completamente il piacere: su questo nessun compromesso è accettabile. Invano ho interrogato per anni mamme, nonne, cugine, cognate e amici di amiche romane. Invano ho molestato interi forum perché mi si dicesse come, come si fa a ottenere la tipica arricciatura. Ho addirittura comprato un coltello giapponese, pensando che magari era la scarsa qualità della mia rudimentale coltelleria casalinga a fare la differenza. Niente.

Ma poi ho ricevuto in dono il tagliapuntarelle - per i posteri Tapù - e la mia vita ha avuto una svolta.



Il genio che lo ha inventato meriterebbe non dico una statua, ma almeno una targa, una giarrettiera, una onoreficenza. Spero che egli sia ricco e famoso, e viaggi su una carrozza dorata tra gli applausi della folla.
Questo aggeggio semplice ma efficace funziona così: acchiappi la puntarella, la spingi attraverso la grata et voilà! Fine del lavoro. Butti nell'acqua e,  quando torni, la trovi fresca di messinpiega, soavemente arricciata come se non avesse fatto altro nella vita.



E siccome il genio è contagioso, nel mio piccolo ho subito intuito che c'era un margine di perfezionamento a un risultato già molto soddisfacente: il taglio a polipetto*.
Il taglio a polipetto, a parte l'aspetto ludico che già è fondamentale di per sé, permette di inforchettare comodamente lo sfuggente ortaggio, e di godere di un bocconcino perfetto.
Ed io da oggi in poi ne godrò a profusione. Grazie Veniero!




* a dire il vero la tecnica del polipetto me l'aveva spiegata anni fa Silvia, che viziosamente la applicava ai wurstel da friggere. Quindi è tutta una catena di virtuosa genialità che si sparge contagiosamente per il globo.

domenica 3 gennaio 2010

Un lieto fine e un buon inizio

Avevo promesso in luglio che avrei dato notizie della Gattina Mannara, e mi sembra il momento giusto per farlo.
Ho aspettato qualche mese perché volevo essere certa che tutto stesse andando come speravo: questa storia era partita come un gran pasticcio, e non volevo celebrarne il lieto fine prima che fosse consolidato.

Ho deciso di tenere la Gattina Mannara con me per tutta l'estate, sperando che in qualche modo le cose si aggiustassero. Volevo osservarla ancora un po', e cercare di capire l'origine dei suoi manifesti disagi e della sua conclamata antipatia per la mia persona. Magari ci voleva solo pazienza, pensavo, molta tranquillità, buone pappe e il tempo per imparare a conoscersi.
Ma le cose non andavano bene: la felina passava tutto il tempo arrampicata sulle zanzariere delle finestre cercando di uscire, una scena penosa. Mi guardava storto. E quando cercavo di giocare con lei diventava sempre più manesca e aggressiva. Giocava con rabbia, ecco.
Dopo due mesi ho confermato quello che avevo già intuito: per stare bene questa gattina aveva bisogno di due cose: uno spazio aperto e un compagno della sua specie. Per il resto cresceva sana e sempre più bella, coccolata, vezzeggiata, ma per niente contenta. E io neanche: è bruttissimo convivere e voler bene a qualcuno che non sta bene con te. Davvero una pessima sensazione.
Così ho deciso che se avessi trovato qualcuno in grado di offrirle la situazione ideale per la sua natura, l'avrei lasciata. Altrimenti ci saremmo arrangiate io e lei, con spirito di adattamento.
Mica facile!
Ma è successo.
C'erano questi due amici che sembravano fatti apposta per lei, e lei per loro. Sereni, affidabili, affettuosi, senza bambini tormentatori di gatti, con una casa dotata di grande terrazzo cintato, e bravissimi genitori di un giovane gatto pacioso che però rimaneva solo tutto il giorno. Stavano pensando, giustamente, di prenderne un secondo perché si facessero compagnia. Meglio di così, non avrei saputo immaginare.
Quando si sono conosciuti io ho capito subito, da come si è comportata la gattina, che sarebbero stati perfetti. Le son piaciuti a prima vista, ha cambiato faccia e atteggiamento, e quando sono tornati in settembre per portarla via è entrata nel trasportino da sola, come se non vedesse l'ora di cominciare la sua nuova vita (quanto mi fa imbestialire questo fatto lo so solo io! ma bisogna che me ne faccia una ragione).


Lei ora sta benissimo, gioca con le farfalline in terrazza, il micione l'ha accettata subito con gioia  e senza riserve, e l'ha invitata immediatamente nella sua cuccia.



Con i suoi nuovi umani è simpatica e affettuosa e loro sono soddisfattissimi della scelta fatta. La vedo con la webcam, ho spesso sue notizie e devo dire che, nonostante il dispiacere di separarmene e tutti i guai passati per lei, mi ha dato vera gioia saperla finalmente nel suo posto giusto, felice come meritava. Si vede che io sono stata solo un tramite, lei doveva raggiungere quel posto lì e lo sapeva, forse per questo era così mannara...
Insomma: vissero tutti felici e contenti.

E io?
Be', io non sono rimasta sola a lungo. Per fortuna mi ha trovato la Tea.
:-)



Ah, e buon inizio anche a voi!