venerdì 29 gennaio 2010

Aranzadas memorabili


Ne so poco di cucina sarda, ma quel poco mi piace moltissimo. Le mie papille tendono a trattenere i ricordi di quello che ho assaggiato lì, anche per anni: chiaro segno di una cucina in accordo naturale con i miei gusti.
Quest'anno avevo voglia di fare dei dolcetti per Natale, ma ero veramente stufa della massiccia proliferazione di biscotti che oberava i miei blog quotidiani nonché l'intero www. La mia memoria papillare quindi, che mi soccorre nei momenti di emergenza, mi ha indicato con sicurezza le aranzadas: dei dolcetti angelici e semplicissimi che mi avevano portato da Nuoro una decina d'anni fa e che mi avevano deliziata.
Mentre passavo le mie serate a sfilettare maniacalmente bucce sottilissime di arancia, la prode MarieClaire e il suo promesso coniuge intercedevano presso la di lui mamma sarda, affinché mollasse la ricetta di famiglia: generosamente ella acconsentì, e aranzadas furono.
Grazie mille a tutti loro, quindi. Ora che le so fare, le farò sempre.
Ci vogliono:
  • arance non trattate
  • miele (io ho usato un buon millefiori, sconsiglio il castagno e in generale il miele molto scuro e amaro).
  • mandorle pelate
Si sbucciano le arance procedendo a quarti, e si leva con un coltellino affilato assolutamente tutta la parte bianca da ogni spicchio di buccia. Si ricavano dei filettini sottilissimi e si mettono a seccare sul calorifero (stufa, mensola del camino, forno ventilato a minima temperatura). Sono fortemente avvantaggiate, in questa fase, le famiglie numerose e dotate di pazienza e buona manualità.
Quando se ne hanno abbastanza si mettono in una pentola in acqua fredda, e si portano a bollore. Si cambia l'acqua e si ripete l'operazione per tre volte. Si scolano bene e si mettono su un panno asciutto.
Si sfilettano in senso longitudinale anche le mandorle ottenendo dei bastoncini sottilissimi (lavoro veramente infame), e li si tosta leggermente nel forno.
Si scalda il miele in quantità sufficiente ad affogarci le bucce, e si cuoce a fuoco dolcissimo per venti minuti, o quanto ci vuole perché esse diventino traslucide e assorbano bene il miele.
Quando sono pronte, si aggiungono i filetti di mandorla e si spegne il fuoco.

Ci si prepara sul tavolo una bella schiera di pirottini da pasticceria di formato mignon, e ci si munisce di  una pinza da cucina tipo questa in foto, o in alternativa di bacchette cinesi (non sto scherzando: io li ho fatti con quelle, delirio assoluto).
 
Si prelevano delle piccole quantità di bucce e mandorle, le si scola molto bene dall'eccesso di miele, e si depositano con mano sicura nei pirottini di carta formando dei mucchietti aggraziati, possibilmente senza schizzare gocce di miele in giro, che poi sono rognose da togliere. In questa fase è fondamentale la rapidità: man mano che il miele si raffredda, infatti, sarà più difficile scolarlo via del tutto, e l'eccesso si potrebbe depositare sul fondo dei pirottini  formando una suoletta appiccicosa  che non va assolutamente bene! Quindi, quando ci si accorge che il composto si sta solidificando troppo e non sgocciola più via immediatamente, gli si dà una scaldatina.
 Si lasciano poi a solidificare, e durano anche un mesetto.

Il risultato dovrebbe essere un etereo, arioso bocconcino di arancia candita e mandorle profumato di miele, difficile da dimenticare. Almeno, per me è stato così.

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In coerenza con la mia personale campagna contro lo sfruttamento dei blogger e a sostegno dell'economia di scambio, questo post è stato scritto dietro generoso compenso di un meraviglioso barattolo di miele sardo.

martedì 19 gennaio 2010

Il mistero delle puntarelle

Non so voi, ma io ho una serie di questioni in sospeso riguardo alla preparazione del cibo.
Misteri che affronto da anni, e che nonostante mi ci sia incaponita non sono mai arrivati a soluzione.
Oggi ne ho uno uno in meno, ed era uno dei più frustranti.

Come si fanno le puntarelle non è un mistero per nessuno. È la cosa più stupida del mondo. Si prendono le puntarelle, eventualmente si spelano, si tagliano a bastoncini finissimi, si mettono in acqua fredda e si lasciano lì un tot di ore. Fine del procedimento. Quando si torna si trovano dei bei ricciolini, li si condisce con olio, aceto, aglio, acciuga. Fine della ricetta.
Oppure, se uno è di Roma, va al mercato e se le compra bell'e arricciate. Usanza civilissima, trovo. Quassù invece l'unico sistema è andare al mercato, comprarsi un enorme cespo di catalogna spigata (perché se chiedi puntarelle non hanno idea di cosa parli), farsi strada attraverso il fogliame a colpi di machete, separare i cicci uno per uno, e accingersi al micidiale lavoro di tagliuzzamento con un coltellino affilato. Ma.
Ma io sono dieci anni che faccio questa cosa, con fede rocciosa, e quando torno trovo gli stessi bastoncini dritti stecchiti che ho lasciato a mollo. E mangiare le puntarelle dritte inficia completamente il piacere: su questo nessun compromesso è accettabile. Invano ho interrogato per anni mamme, nonne, cugine, cognate e amici di amiche romane. Invano ho molestato interi forum perché mi si dicesse come, come si fa a ottenere la tipica arricciatura. Ho addirittura comprato un coltello giapponese, pensando che magari era la scarsa qualità della mia rudimentale coltelleria casalinga a fare la differenza. Niente.

Ma poi ho ricevuto in dono il tagliapuntarelle - per i posteri Tapù - e la mia vita ha avuto una svolta.



Il genio che lo ha inventato meriterebbe non dico una statua, ma almeno una targa, una giarrettiera, una onoreficenza. Spero che egli sia ricco e famoso, e viaggi su una carrozza dorata tra gli applausi della folla.
Questo aggeggio semplice ma efficace funziona così: acchiappi la puntarella, la spingi attraverso la grata et voilà! Fine del lavoro. Butti nell'acqua e,  quando torni, la trovi fresca di messinpiega, soavemente arricciata come se non avesse fatto altro nella vita.



E siccome il genio è contagioso, nel mio piccolo ho subito intuito che c'era un margine di perfezionamento a un risultato già molto soddisfacente: il taglio a polipetto*.
Il taglio a polipetto, a parte l'aspetto ludico che già è fondamentale di per sé, permette di inforchettare comodamente lo sfuggente ortaggio, e di godere di un bocconcino perfetto.
Ed io da oggi in poi ne godrò a profusione. Grazie Veniero!




* a dire il vero la tecnica del polipetto me l'aveva spiegata anni fa Silvia, che viziosamente la applicava ai wurstel da friggere. Quindi è tutta una catena di virtuosa genialità che si sparge contagiosamente per il globo.

domenica 3 gennaio 2010

Un lieto fine e un buon inizio

Avevo promesso in luglio che avrei dato notizie della Gattina Mannara, e mi sembra il momento giusto per farlo.
Ho aspettato qualche mese perché volevo essere certa che tutto stesse andando come speravo: questa storia era partita come un gran pasticcio, e non volevo celebrarne il lieto fine prima che fosse consolidato.

Ho deciso di tenere la Gattina Mannara con me per tutta l'estate, sperando che in qualche modo le cose si aggiustassero. Volevo osservarla ancora un po', e cercare di capire l'origine dei suoi manifesti disagi e della sua conclamata antipatia per la mia persona. Magari ci voleva solo pazienza, pensavo, molta tranquillità, buone pappe e il tempo per imparare a conoscersi.
Ma le cose non andavano bene: la felina passava tutto il tempo arrampicata sulle zanzariere delle finestre cercando di uscire, una scena penosa. Mi guardava storto. E quando cercavo di giocare con lei diventava sempre più manesca e aggressiva. Giocava con rabbia, ecco.
Dopo due mesi ho confermato quello che avevo già intuito: per stare bene questa gattina aveva bisogno di due cose: uno spazio aperto e un compagno della sua specie. Per il resto cresceva sana e sempre più bella, coccolata, vezzeggiata, ma per niente contenta. E io neanche: è bruttissimo convivere e voler bene a qualcuno che non sta bene con te. Davvero una pessima sensazione.
Così ho deciso che se avessi trovato qualcuno in grado di offrirle la situazione ideale per la sua natura, l'avrei lasciata. Altrimenti ci saremmo arrangiate io e lei, con spirito di adattamento.
Mica facile!
Ma è successo.
C'erano questi due amici che sembravano fatti apposta per lei, e lei per loro. Sereni, affidabili, affettuosi, senza bambini tormentatori di gatti, con una casa dotata di grande terrazzo cintato, e bravissimi genitori di un giovane gatto pacioso che però rimaneva solo tutto il giorno. Stavano pensando, giustamente, di prenderne un secondo perché si facessero compagnia. Meglio di così, non avrei saputo immaginare.
Quando si sono conosciuti io ho capito subito, da come si è comportata la gattina, che sarebbero stati perfetti. Le son piaciuti a prima vista, ha cambiato faccia e atteggiamento, e quando sono tornati in settembre per portarla via è entrata nel trasportino da sola, come se non vedesse l'ora di cominciare la sua nuova vita (quanto mi fa imbestialire questo fatto lo so solo io! ma bisogna che me ne faccia una ragione).


Lei ora sta benissimo, gioca con le farfalline in terrazza, il micione l'ha accettata subito con gioia  e senza riserve, e l'ha invitata immediatamente nella sua cuccia.



Con i suoi nuovi umani è simpatica e affettuosa e loro sono soddisfattissimi della scelta fatta. La vedo con la webcam, ho spesso sue notizie e devo dire che, nonostante il dispiacere di separarmene e tutti i guai passati per lei, mi ha dato vera gioia saperla finalmente nel suo posto giusto, felice come meritava. Si vede che io sono stata solo un tramite, lei doveva raggiungere quel posto lì e lo sapeva, forse per questo era così mannara...
Insomma: vissero tutti felici e contenti.

E io?
Be', io non sono rimasta sola a lungo. Per fortuna mi ha trovato la Tea.
:-)



Ah, e buon inizio anche a voi!