domenica 18 marzo 2007

Polpette

h 19
Sì, polpette, ecco cosa ci vuole. Una domenica a lavoricchiare svogliatamente, scoglionata quanto basta ma senza trascendere nel cattivo umore vero e proprio, che però so sempre in agguato al calare della sera. Urge rimedio: un atto di presenza in cucina, impegnarsi il minimo indispensabile a procurarsi una cena decente capace di scongiurare eventuale malinconia. Niente compulsazioni di ricette, non oggi; salto la parte della stimolazione mentale anticipatoria, di solito gran parte del piacere. Ma non ho voglia né forze, oggi. Quindi: polpette. Polpette casual, senza pretese, onestissime polpette fatte con quello che c'è, e già che ho il forno acceso con dentro dei panini (altrettanto modesti, un avanzo di farina rustica svizzera, acqua, lievito e via, quel che viene viene), le impano senza neanche l'uovo e provo a cuocerle così. Mal che vada, saranno asciuttine, ma sempre polpette restano. Allegria assicurata. Peccato, niente vino, ma il piano di moderazione impone coerenza. Bisogna assolutamente che mi riabitui a considerare il vino a tavola una presenza episodica e non scontata, o divento una botte - e sono già vicinissima al limite del mio peso- botte, ammettiamolo. Quando sono una botte, sono profondamente infelice.

h 23
E ho fatto bene. Le polpette erano perfettamente soddisfacenti, piccine, cicciotte e croccanti, le ho mangiate con una insalata di pomodorini, dopo un antipasto di puntarelle condite come si deve. Il pane? Parliamone.
Mistero: perché mai la volta che schiaffo tutto in una ciotola a occhio, impasto malamente il sale insieme al lievito e tutto, lievitini e starter neanche a parlarne, non faccio caso a tempi e temperature della lievitazione e della cottura, me me sbatto delle ricette, il pane viene buonissimo? Stasera son riusciti dei nodini che avevo già fallito le due volte che mi ci ero messa ricetta alla mano, dicendo a me stessa: facciamo le cose perbene.
Una ipotesi: che non seguire uno schema preciso induca ad attivare la sensibilità. Non distratta dalle istruzioni, uso di più i sensi: il tatto mi dice quando ho impastato abbastanza, la vista quando la lievitazione è giusta, l'olfatto segnala la cottura.
O magari, più prosaicamente, culo.
La maggior parte delle volte che cucino così, con questo livello di pretesa e niente di più, va a finire che ceno come un pascià.

Felicità di non avere famiglia, nessuno a cui render conto di cosa, quando, quanto; porzioni per uno, sempre qualcosa di buono in dispensa, e tutto il tempo e la calma e l'agio di seguire solo ed esclusivamente le mie voglie e i miei capricci.
Tristezza di non avere nessuno che divide con me l'ora di cena, le cose buone, i piaceri; che eventualmente consola e distrae in caso di dispiaceri. Niente sorrisi, grave mancanza.
Ed ecco perchè sono qua, credo.
Vediamo come va.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

:)
Lu

Esmé ha detto...

Aha! Oggi si gioca al Piccolo Archeologo? :-)

Andrea Ferrigno ha detto...

La tua scrittura s'è fatta più essenziale, pur restando evocativa ;)